SPECIALE di NATALE – Una leggenda natalizia tra colpa, espiazione e voci dall’oltretomba
Tra le molte leggende europee che intrecciano il mondo animale con l’aldilà, la corsa selvaggia dei segugi occupa un posto particolare. Non è una storia di presagi di morte né di maledizioni dirette contro chi assiste al fenomeno. E forse è proprio questo a renderla ancora più perturbante: i protagonisti non sono portatori di sventura, ma inermi vittime di una violenza che continua a riecheggiare nel tempo.
La leggenda racconta di una muta di cani da caccia spettrali che, nelle notti d’inverno, attraversa campagne e brughiere in una corsa furiosa e senza meta. I loro latrati non sono quelli di una caccia reale, ma suonano come echi provenienti da un altro mondo, capaci di terrorizzare chiunque li oda. Non inseguono una preda concreta: corrono perché così hanno fatto in vita, e perché così sembrano condannati a fare per sempre.
All’origine della leggenda c’è la figura di un signorotto inglese, il cui nome si è perso nel tempo ma non la fama. Viene descritto come un uomo violento, empio e privo di scrupoli, colpevole di abusi, saccheggi e della profanazione dei giorni sacri. Un personaggio che incarna l’archetipo del potere esercitato senza giustizia.
Eppure, paradossalmente, quest’uomo nutriva un attaccamento viscerale per i suoi cani da caccia. Un amore distorto, possessivo, che non riconosceva agli animali una vita propria. In punto di morte, il signorotto espresse un ultimo desiderio: essere sepolto insieme ai suoi segugi, perché neanche la morte lo separasse da loro.
Il problema, come spesso accade nelle leggende più oscure, è che i cani erano ancora vivi.
Per obbedire al volere del padrone, la servitù – descritta come “dolente”, ma comunque sottomessa – uccise i cani uno dopo l’altro. Un sacrificio inutile, crudele, che non rispondeva ad alcuna necessità se non alla volontà del potente.
La tragedia non si concluse con la loro morte. I segugi vennero sepolti nella stessa tomba del padrone, in terra consacrata. Ed è qui che la leggenda introduce un elemento chiave della tradizione popolare: gli animali, pur essendo innocenti, non possono riposare in suolo benedetto, riservato alle anime umane.
Questo errore – o forse questa ulteriore violenza simbolica – spezzò definitivamente l’equilibrio. Le anime dei cani, già strappate ingiustamente alla vita, rimasero intrappolate, incapaci di trovare pace.
Da allora, si racconta, la muta dei segugi inquieti appare nelle notti più oscure, attraversando i luoghi della loro antica caccia. Non attaccano, non colpiscono, non portano sciagura. Ma il loro passaggio è inconfondibile: una corsa forsennata, guaiti disperati, latrati cupi come provenienti dall’oltretomba.
È una visione che scuote profondamente chi la incontra, perché non parla di vendetta, ma di un dolore che non ha trovato giustizia. I cani non cercano riscatto: cercano, invano, la conclusione di una corsa che non avrebbe mai dovuto iniziare.
Perché proprio a Natale?
Molte versioni della leggenda collocano le apparizioni nel periodo natalizio. Il motivo non è del tutto chiaro, ma alcune varianti suggeriscono che l’uccisione dei segugi avvenne proprio in quei giorni, quando il tempo sacro dovrebbe celebrare la nascita, la luce e la pace.
In questo contrasto – tra la promessa di redenzione del Natale e un atto di violenza assoluta – la leggenda trova la sua forza simbolica.
La corsa dei segugi inquieti diventa così una memoria che ritorna, un monito silenzioso: le colpe degli uomini non si esauriscono con la loro morte, e l’innocenza violata non dimentica.
Oggi questa leggenda può essere letta come una riflessione profonda sul rapporto di potere tra uomo e animale, sull’abuso travestito da affetto e sulla responsabilità che accompagna ogni relazione asimmetrica. I segugi inquieti non portano sfortuna. Portano memoria.
E ci ricordano che anche il silenzio degli animali ha una voce, capace di attraversare i secoli e farsi sentire, soprattutto quando il mondo celebra la luce dimenticando le ombre.


