Il cane nei secoli successivi al Rinascimento
Siamo nel Seicento e l’uomo, ormai affermato padrone della natura, non guarda più al cane soltanto come guardiano o simbolo di fedeltà. Dopo il Rinascimento — epoca in cui l’arte celebrava il legame affettivo e simbolico tra uomo e animale — il cane diventa protagonista di un nuovo scenario: quello della caccia e del prestigio sociale.
Le grandi battute, riservate a nobili e aristocratici, diventano teatro di esibizione del potere e dell’eleganza. I cani sono parte integrante di questa rappresentazione: levrieri, segugi, bracchi, setter, pointer… ciascuno selezionato con cura per una funzione precisa. La caccia non è solo necessità alimentare: è spettacolo, competizione e divertimento dell’uomo, ma anche fatica, rischio e sacrificio per il cane.
Il prezzo del divertimento
Dietro la gloria dei trofei e dei dipinti che immortalano scene di caccia, si nasconde una realtà più dura: molti cani perdevano la vita durante le battute, feriti dagli animali selvatici o dalle stesse armi dell’uomo. La loro dedizione veniva data per scontata, e solo raramente celebrata. In certi casi, il cane veniva sostituito senza esitazione, come un semplice strumento di lavoro.
Un esempio straordinario di come l’arte dell’epoca rappresentasse questa visione si trova nel dipinto “Caccia al cervo” di Paul de Vos (1591-1678), pittore fiammingo del periodo barocco.
Nella tela, la violenza e il pathos della scena si impongono con forza: un branco di levrieri si lancia sul cervo ormai stremato, in una spirale di movimento e tensione che trascina l’osservatore al centro del dramma. Non c’è quiete, non c’è distanza: l’istinto, la paura e la forza si fondono in un’unica, potente immagine.
De Vos, collaboratore di Peter Paul Rubens, riesce a tradurre nella pittura ciò che la caccia rappresentava per l’uomo del tempo: una lotta per il dominio sulla natura, spettacolare ma crudele, dove il cane è al tempo stesso strumento di gloria e vittima del sacrificio.
Eppure, anche in quel mondo di gerarchie e ostentazione, si consolida un legame più intimo: l’uomo scopre nel cane non solo un aiutante, ma un compagno capace di capire gesti, emozioni e intenzioni. È in questi secoli che il cane comincia davvero a entrare nelle case, non solo nei cortili o nei campi di caccia.
Le razze e la mano dell’uomo
Dal Seicento all’Ottocento, la selezione delle razze diventa una vera e propria scienza sperimentale. L’uomo incrocia, seleziona, modifica. Nascono i primi club di razza, si tracciano genealogie, si fissano standard. L’obiettivo? Ottenere il cane “perfetto” per ogni funzione: il bracco dal fiuto infallibile, il levriero veloce come il vento, il retriever capace di riportare la preda senza rovinarla.
Ma a quale prezzo?
Con la selezione forzata arrivano anche le fragilità genetiche, le malattie ereditarie, le deformazioni funzionali a un ideale estetico o utilitaristico. La bellezza, la velocità o la forza vengono spesso anteposte al benessere dell’animale. È il primo passo verso quella manipolazione genetica che, nei secoli successivi, renderà alcune razze più delicate, più “pure” ma anche più vulnerabili.
Da strumento a amico
Nonostante tutto, il percorso del cane segue quello dell’umanità stessa. Con la rivoluzione industriale e la trasformazione dei costumi sociali, la caccia perde centralità e il cane comincia a occupare un posto nuovo: non più solo ai piedi del cacciatore, ma accanto all’uomo come compagno di vita.
Un passaggio che ha richiesto secoli, ma che segna una delle conquiste più profonde nella relazione tra le nostre due specie: dal dominio alla convivenza, dall’utilità all’affetto.
La nuova etica della relazione
Oggi la caccia, per molti, è un ricordo di un passato culturale. Eppure, continua a esistere — non più per fame, ma per abitudine, per tradizione, o forse per qualcosa di più profondo.
Vale la pena chiederselo: perché l’uomo ha ancora bisogno di cacciare?
La caccia non è più un atto di sopravvivenza, ma una rappresentazione del potere. L’uomo armato, di fronte a un animale che non può difendersi alla pari, esercita un dominio che ha radici antiche, ma che oggi appare sempre più come una forma di compensazione.
Dietro il fucile, spesso, non c’è solo un cacciatore: c’è un individuo che cerca di riappropriarsi di un controllo che nella società moderna sente di aver perduto. Cacciare diventa allora un modo per illudersi di essere ancora padrone della natura, in un mondo dove l’uomo stesso si sente prigioniero di ritmi, regole e limiti che non controlla più.
Eppure, è proprio accanto al cane — che da secoli lo accompagna, non per comando ma per scelta — che l’uomo potrebbe riscoprire un modo diverso di vivere la natura. Non più come conquista, ma come appartenenza. Non più con un’arma, ma con rispetto, conoscenza e ascolto.
La cinofilia moderna — quella che FICSS promuove — nasce da questa consapevolezza: il cane non è più strumento di un bisogno primitivo, ma ponte verso un equilibrio nuovo, dove la relazione sostituisce la competizione, e il rispetto diventa la più alta forma di civiltà.
Oggi, dopo millenni di cammino insieme, dovremmo chiederci non più quanto il cane serva all’uomo, ma quanto l’uomo sappia davvero meritarsi il cane.
Bibliografia e approfondimenti
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Kathleen Kete, The Beast in the Boudoir: Petkeeping in Nineteenth-Century Paris, University of California Press, 1994.
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Erica Fudge, Perceiving Animals: Humans and Beasts in Early Modern English Culture, University of Illinois Press, 2000.
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Stanley Coren, La storia del cane. Come l’uomo ha creato il suo migliore amico, Mondadori, 2003.
Immagine di testata: Paolo Uccello, “Caccia nel bosco”, tempera su tavola, circa 1460, Ashmolean Museum, Oxford.
Immagine del post: Paul de Vos, “Caccia al cervo”, olio su tela, XVII secolo, collezione privata.


